Lug
2015, Articoli, Left, Pubblicazioni

Articolo pubblicato

METTI UNA SERA AL BAR DI VIA CESTIO

LEFT – 22 ottobre ’15

Gianluca mette i portacenere di plastica che sennò poi se li tirano addosso e glieli rompono. Mica per romperglieli che se li tirano, ma perché a un certo punto è possibile che scatta la rissa. Ma nemmeno ci sta sempre la rissa. Io per esempio ne ho vista una sola. Poi è arrivata la polizia. Stavamo tutti fuori perché un dentro vero al bar di Gianluca non ci sta. Il bar è piccolo, è sul marciapiede della Tuscolana. E insomma stavamo fuori e arrivano due macchine della polizia e scendono i poliziotti con la mano sulla pistola e fanno un gran casìno come se devono arrestare i terroristi e invece ci stiamo solo noi e non ci stava più nemmeno la rissa. Che poi non era proprio una rissa. Era che due s’erano messi a urlarsi contro cose del tipo Io ti spacco la faccia e roba del genere. E io m’ero pure messo in mezzo. Dicevo una cosa del tipo Ragazzi calmatevi sennò arrivano le guardie, che infatti sono arrivate e sono scese dalle macchine come se c’era una rapina americana di quelle dei film che sparano col mitra e invece no. Invece c’eravamo noi che stavamo seduti a bere e a chiacchierare, però sono bastati quei cinque minuti di strilli e qualcuno ha chiamato le guardie. E queste ci urlavano che non dovevamo muoverci e gli dovevamo dare i documenti e a un certo punto io gli ho pure detto Vi stiamo dando i documenti e non ci muoviamo, è inutile che me lo ripeti. E infatti poi si sono dati una calmata. Poi me ne sono andato a casa ché s’era pure messo a piovere, ma insomma ci sarei andato lo stesso perché erano quasi le tre di notte. E mentre me ne tornavo a casa col furgone, piano piano, ho pensato a quello che era appena successo, cioè al fatto che mi ero messo in mezzo a due che si volevano spaccare la faccia e uno c’aveva pure la bottiglia in mano e magari me la spaccava in faccia o comunque bastava pure una gomitata o uno schiaffo che m’avrebbe sbattuto per terra. Io con le botte non sono mai stato proprio capace. E poi ho pensato che sono arrivate le guardie e noi al bar eravamo tutti tranquilli, ma magari c’era uno con la coca e cercava di scappare e quelli tiravano fuori la pistola per davvero o uno ubriaco che sbroccava o magari puro uno messo male con la testa che se vede le guardie imbastisce un casìno. Insomma ho pensato che dopo le botte che potevo prendere nella rissa ci poteva scappare anche qualche casino con la polizia. E che potevo anche essere io quello che combinava il casino per il fatto che alla guardia gli ho detto che doveva abbassare la cresta perché lì al bar ci stava tutta gente tranquilla. Che poi se ne sentono tante di storie di gente che viene menata dalle guardie. Uno a Milano è morto proprio così, cioè stava al bar e qualcuno ha chiamato la polizia che è arrivata, dice che Ferulli, così si chiamava quello che è morto, forse c’ha mezzo litigato e quelli hanno detto che dovevano fermarlo in qualche maniera e l’hanno fatto. Tant’è che poi è proprio morto. C’ha avuto l’infarto. Ma poi al processo hanno detto che il motivo dell’infarto non sono le botte, ma lo stress. Cioè che le botte gli hanno provocato uno stress che poi gli ha provocato l’infarto. Così hanno detto. E poi c’era pure quell’altro che è morto sempre nel settentrione, precisamente a Varese. Io c’ho dei parenti da quelle parti, ma non c’entra niente con la storia che sto scrivendo e nemmeno col film che ho appena girato e che sarebbe il motivo di questo articolo sulla rivista LEFT, ma se continuo di questo passo vado troppo fuori tema e allora riparto da Varese. Sì, appunto, a Varese è morto Giuseppe Uva. Pure lui aveva bevuto un po’, ma non stava più al bar, stava per strada con un amico e hanno spostato una transenna e allora deve essere successo pure lì che qualcuno ha chiamato le guardie. Poi il giorno appresso Giuseppe era morto.
E insomma io me ne torno a casa piano piano e penso a questa rissa e poi alle guardie e poi a questi due morti e vado piano perché se mi fermano e mi fanno il palloncino magari mi levano pure il furgone.
E questa cosa è successa una notte al bar all’angolo di via Lucio Sestio dove c’è anche la macchinetta per le fototessera e l’entrata della Metro. Per il resto di litigate vere e proprie non ne ho viste, ma Gianluca è preoccupato per i portacenere e ha messo quelli di plastica.
E le bottiglie? gli faccio. Infatti pure quelle si tirano. Infatti ci stanno certi posti dove la bottiglia di birra la tiene in mano solo il barista. A te ti danno il bicchiere di plastica. A Bologna uno m’ha dato anche il vino nel bicchiere di plastica. Mi fa tutta la tiritera sui vini speciali che vende lui e poi mi mette il vino speciale nel bicchiere di plastica. Era al centro di Bologna in un bar fichetto. Poi è entrata una coppia di fichetti che conoscevano il barista e a loro gli ha dato il vino nel bicchiere di vetro. Il barista fichetto se n’è fregato che stava facendo una brutta figura con me. Non sono cliente, ecco tutto. Coi clienti fichetti fa il gentile, con me no.
Ma tornando al bar di Gianluca, be quello è il posto che doveva essere il bar del mio film. Gianluca me l’ha detto cento volte Allora? quando lo giriamo ‘sto film? E invece non è stato possibile perché sta troppo in mezzo alla strada e per i permessi è un casìno, e poi c’è troppo rumore di giorno. Però Gianluca nel film mio ci sta. Mi da due bottiglie di Sambuca in una delle ultime scene. Io mi prendo la Sambuca e monto sul furgone proprio come quando andavo al bar di Gianluca per davvero e poi rimontavo sul furgone. E poi nel film ci stanno tutti quelli che stanno al bar. Cioè non proprio quelli veri, ma gente come loro. Gente come Agostino che è sardo e ogni tanto è un po’ triste. Gente come Stefano che stavo a comprare un computer da lui e m’ha lasciato il numero e invece del cognome mi dice Scrivi Stefano Microchip. E poi Marco detto Scimmia che mi dice degli anni sessanta e delle pipe a terra che facevano ai prati dell’Appio Claudio. Marco è il tipo che gli offri una birra e poi lui te la apre col suo multiuso e col tappo ci fa uno scarabeo. E ci sta pure Magnum che ha saputo che facevo un film e lui s’è messo a cantare. Giulia ha detto Ammazza che canna! Dove la canna sarebbe la gola, che cioè significa che c’ha una voce potente. Non mi ricordo se ha detto proprio canna, comunque potrebbe essere che ha detto proprio canna, e se non era canna, era una cosa del genere. E poi un sacco di altra gente tipo Laura, Angela, Jim eccetera. Gente tipo quello che non avevo mai visto e mi fa Che me accompagni a casa col motorino, perché quella volta stavo col motorino e non col furgone che sta pure nel film. E io gli ho fatto presente che avevo solo un casco. E lui E vabbè, allora non se lo mettemo nessuno dei due er casco, e a me mi è sembrato un pensiero filosoficamente ineccepibile.
Nelle ultime duecentocinquanta parole che posso scrivere in queste pagine vorrei spiegare al lettore il perché di questo racconto che sembra che non parla per niente del film, invece sì. Vedrai che nel mio film ci stanno i morti, le macchine incendiate, gli incidenti con l’effetto speciale, c’è l’amore ricambiato, ma anche no. Ci stanno prostitute e truffatori e uno viene anche massacrato di botte dalle guardie. Chi sono tutti questi personaggi? Che è questa storia? Allo spettatore gli dico Pensa che tutto quello che vedi è già successo. Pensa che tutti quei personaggi vivono come se fossero già morti da un secolo e vanno incontro al destino come se ce l’avessero già dietro le spalle e non hanno più niente da perdere. Pensa che non stai al cinema a vedere il film. Pensa che stai al bar. Spettatore, pensa al tuo bar, quello dove passi due minuti o tre ore, quello che ti fa piacere starci dentro anche solo per il caffè ristretto bevuto in fretta come i ciclisti che pisciano in corsa. Ecco, pensa che il mio film non è un film, ma una storia che senti al bar. Una storia di gente che non c’è più, ma che è uguale alla gente che c’è ancora e pure a te. E soprattutto ricordati che questa storia la racconta un attore ubriaco.

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